Camminando per le strade della mia città ed osservando la gente, mi sono reso conto che nessuno è più disposto ad ascoltare l’altro. E’ diventata una sorta di guerra di tutti contro tutti in cui ognuno fa quanto più chiasso possibile, al solo scopo di affermare il proprio punto di vista ed il proprio “ego”.
A bordo dei mezzi pubblici, nei ristoranti o al bar, al lavoro ma anche al mare ed in relax tra gli amici, mi accorgo che non c’è più spazio per il dialogo: sembra quasi che l’obiettivo finale sia quello di ridurre l’interlocutore al ruolo di una mera comparsa, di una vittima da immolare sull’altare del nostro sconfinato narcisismo e della nostra smania di protagonismo.
E non è un problema circoscritto solo alla mia città, credo stia diventando un problema generale del nostro Paese: le risse in TV sono ormai all’ordine del giorno e rappresentano l’esemplificazione più evidente di questa tendenza, che non riguarda, peraltro, soltanto “l’uomo della strada”; nei talk show i conduttori pongono domande ma non ascoltano le risposte, mentre, dal canto loro, gli ospiti urlano accavallando le voci in un frastuono infernale; persino i politici, che dovrebbero fornire l’esempio, si lasciano spesso travolgere dalla loro “vis polemica”, favorendo la diffusione di deplorevoli modelli comportamentali tra la gente comune.
Mi duole ammetterlo, ma devo onestamente rilevare che in altri Paesi europei la situazione sia un po’ differente. Provate a salire a bordo della metropolitana di Londra: il silenzio regna sovrano. La maggior parte della gente rimane silente, alcuni approfittano del tempo di percorrenza per leggere un libro o un giornale, taluni sussurrano qualche frase di circostanza… ma nulla di più. In genere, a quelle latitudini, alzare la voce al di là di un certo numero di decibel è considerato un disdicevole segno di volgarità.
Dalle nostre parti, invece, è diventata una guerra proprio perché il delirio di onnipotenza ci fa credere di essere gli unici depositari della ricetta magica per risolvere i problemi del mondo; facciamo del nostro meglio per sovrastare l’interlocutore, per impedirgli di parlare, per zittirlo: l’opinione altrui, qualora differente dalla nostra, non ci interessa… anzi, ci infastidisce.
Per convincere gli altri della bontà delle nostre idee, gridiamo ed ostentiamo sicurezza persino quando la discussione scivola su terreni a noi sconosciuti, su argomenti a noi del tutto ignoti, o di cui, al limite, abbiamo letto distrattamente qualche riga su Wikipedia.
Detto per inciso, ho come l’impressione che sempre più spesso si utilizzi Internet nel modo sbagliato; lo si utilizza come se fosse una specie di “hard disk” esterno del nostro cervello, a cui attingiamo allegramente, credendo, in tal modo, di mascherare o addirittura di sopperire alla nostra atavica ignoranza.
Così facendo, la nostra mente è diventata una scatola vuota, la memoria a lungo termine ha lasciato il passo alla memoria breve ed i libri rimangono tristemente invenduti sugli scaffali polverosi delle librerie. A che serve leggere? In ultima analisi, per qualunque domanda, c’è sempre Internet a fornirci la risposta!
Si parla sempre di più e si ascolta e si legge sempre di meno; non c’è più la pazienza di ascoltare ma neppure di leggere. Si va avanti a slogan postati su facebook, a frasi urlate, a titoli di giornali ad effetto, e sottolineo “titoli” perché sono solo quelli che fanno opinione… gli articoli, di contro, non li legge più nessuno. Il rischio, chiaramente, è quello di annullare la coscienza critica.
“Quarantacinquemila giorni di malattia all’anno per i dipendenti regionali”: cosi titolava qualche tempo fa, a caratteri cubitali, il quotidiano più importante della mia Regione. Era bastato quel titolo qualunquistico per svegliare la bestia che sonnecchiava nell’animo di un gruppo di individui che oziavano al bar quella mattina, mentre mi trovavo a consumare frettolosamente la mia colazione, prima di recarmi, come ogni mattina, al lavoro.
“Dovrebbero licenziarli tutti quanti!” urlava un tizio rasato a pelle, con un incomprensibile tatuaggio dietro al collo. “Ai lavori forzati!”, gli faceva eco un amico. Si alzavano da più parti cori unanimi per condannare quello che appariva come un fatto deprecabile ed infine, immancabile come sempre, arrivò anche il commento del più stupido del gruppo: “Per certi fannulloni ci vorrebbe la dittatura, ci vorrebbe Mussolini!”.
Avrei voluto dire a quella gente che sarebbe stato stato sufficiente fare un calcolo rapido ed elementare per scoprire che non c’era nulla di deprecabile in quella notizia, l’unico aspetto deprecabile era la natura tendenziosa di quel titolo di giornale.
A fronte di una popolazione di oltre cinque milioni di abitanti, nella mia Regione ci sono circa quindicimila dipendenti dislocati nei vari Uffici amministrativi e la loro età media (a causa del blocco delle assunzioni, che risale ormai alla notte dei tempi) è di poco superiore ai cinquant’anni. Senza entrare nel merito della questione se il numero di tali dipendenti sia eccessivo o meno (non è questa le sede idonea per affrontare tale questione…) rimane il fatto che mediamente, per motivi di salute, ciascuno di quei dipendenti (peraltro ormai non più giovanissimi) si assentava solo tre giorni all’anno…
Avrei voluto dirgli che mi era bastato azionare la mente per arrivare a quella semplice deduzione, ma non dissi nulla, consapevole che non mi avrebbero dato il tempo di spiegare, che non si sarebbero mai presi la briga di ascoltarmi. E così pagai il conto, li guardai in silenzio e me ne andai.
Quello appena descritto è solo un episodio raccontato a titolo meramente esemplificativo ma, credetemi, non passa giorno in cui non aumenti in me la consapevolezza che stiamo scivolando verso una deriva pericolosamente qualunquistica.
Dovremmo ritrovare il coraggio di sospendere il giudizio e cominciare a fare esercizi di silenzio. Il silenzio è propedeutico alla riflessione e rinsalda i rapporti umani. In fondo, ho sempre pensato che i migliori amici non siano quelli con cui si condividano risate crasse, ma quelli con i quali si possa camminare a fianco anche senza dire una parola, salvo poi tornare a casa con la sensazione che quella sia stata la miglior conversazione della vita.
Tacendo, ci apriamo agli altri, prestiamo loro maggiore attenzione e magari evitiamo anche di dire qualche sciocchezza di troppo.
Diceva Confucio: “Il silenzio è un vero amico che non ti tradisce mai”.
All’inizio della mia migrazione dal più profondo sud al più alto nord, mi trovai a pranzo, un bel giorno primaverile luminoso, con un mio paesano, che per età era un padre. Il locale era affollato e noi gli unici terroni. Gli altri tutti del luogo parlavano, i più anziani in particolare, il loro dialetto a noi sconosciuto, ma piacevole all’ascolto. Si era in un bar-trattoria e al bar erano solo anziani, con i pomelli del viso e le grosse nari rosseggianti e porosi, che, tra un calice e un altro, si capiva parlassero di cose amene tipiche della loro cultura, da noi terroni definita “polentona”. Noi si era di tavolo a ridosso del bancone. Il mio accompagnatore, uomo colto e facile all’ironia, ogni tanto alzava il suo calice, il viso e gli occhi accesi d’un bel sorriso, ammiccava gli anziani del bancone come approvando le loro conversazioni e poi, con la sua bella voce baritonale, rivolgendosi a me in siciliano, commentava quei discorsi per lui tipici da ubriaconi polentoni perditempo. E si divertiva del suo commento vociato, per essere incomprensibile a tutti gli altri. I vecchietti ricambiavano alzando sorridenti i loro calici.
Ora sono 60 anni passati e a quel pranzo tutti si vociava per sovrastare, non le idee degli altri, ma solo il vociare stesso in crescendo per farsi sentire.
Era ancora il tempo in cui la TV non offriva dibattiti inutili su tutto, con tuttologi di nulla e ospiti urlanti per dare spettacolo di violenza verbale.
Era il tempo in cui la TV trasmetteva, intrattenendo piacevolmente, belle produzioni del teatro occidentale, divertendo. E tanti di noi, carenti di letture, così siamo stati acculturati e, alcuni, avviati a leggere.
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Eh già, era quello il tempo che forse, nostalgicamente, ci troviamo a rimpiangere…
Grazie per il tuo prezioso e circostanziato commento al mio articolo 🙂
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🙂
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Sottoscrivo e condivido in pieno tutto quello che dici in questo articolo illuminante che dovrebbe essere diffuso su larga scala a scopo educativo! Purtroppo l’Italia sta diventando un teatrino e il peggio è che non ce ne rendiamo neanche conto
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Ciao Emanuele,
ti ringrazio per il tuo convinto apprezzamento.
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🌻🌻👏
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Condivido, con tristezza, ogni singola parola. Arcigni complici in questa involuzione sono i social e l’uso errato che ne viene fatto. Anziché finestre aperte sul proprio mondo al fine di trovare contatto con quelli altrui, vengono usati come mero palcoscenico per manifestare gridando in una assurda e allucinante commistione di egotismo, egoismo, egocentrismo.
E tutto ciò viene sempre più riversato sul reale, sul quotidiano, con conseguenze vergognose ed umilianti per l’intelletto umano.
🖖🏻
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Ciao Lu,
Grazie per aver condiviso il mio articolo. Mi trovo perfettamente d’accordo con ciò che scrivi nel tuo commento, in maniera lucida ed analitica.
A presto e buona giornata 🙂
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Ben detto.
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Grazie mille! Ciao
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“Before you speak, ask yourself: is it kind, is it necessary, is it true, does it improve on the silence?” – Sai Baba Purtroppo come dici tu ce lo dimentichiamo troppo spesso 😉 Bel post Giovanni! Io vivo all’estero e in effetti mi sono accorta che negli ultimi anni in Italia i toni si sono decisamente inaspriti… le persone sembrano davvero molto piu’ arrabbiate e rancorose… un vero peccato…
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Ciao Giulia,
è decisamente un vero peccato vedere tanta gente che disperde le proprie potenzialità, convogliandole in energie negative: l’inasprimento dei toni e la mancanza di rispetto nei confronti dell’altro (in specie quando l’altro ci appare del tutto diverso da noi) è la logica conseguenza di questa erronea attitudine mentale. Ti ringrazio molto per il tuo commento e spero che continuerai a seguirmi sul mio blog 🙂
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Un altro articolo dei tuoi, Giovanni: equilibrato e riflessivo. E’ un vero piacere seguire il tuo blog. Grazie per quello che scrivi, anche se non ti conosco
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Grazie a te per le belle parole: mi limito a scrivere, onestamente, quello che penso, e mi fa piacere sapere che ci sia qualcuno, da qualche parte, che pur non conoscendomi personalmente, condivida il mio pensiero…
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Anch’io apprezzo la tranquillità 🙂
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Ciao Sara e grazie mille per aver lasciato il tuo gradito commento!
Ti aspetto ancora sul mio blog…
Giovanni
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Beautifully written 😊 here in Trivandrum, India, silence is missing in the recent years with lots of vehicles going in city roads, lots of buildings being build up, and celebrations in temples, churches and mosques with big speakers on roadside. At first, I had a bad time with these noise, but I started to meditate through these noises and with practice, I could remain calm even in the middle of these noises. Hope this may help you too 😊
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Hi Krishna,
Thank you so much for stopping by and reading my post: I’m really honoured.
It’s a shame even in India silence is missing in the recent years.
However, I think meditation and practice might be a great help to instill hope and calm in our hearts 🙂
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come non essere daccordo!!!
saluti a lei e alla sua bella regione
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Grazie Walker!
Ricambio i saluti con cordialità.
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It is a good article. Long ago, Korean people used to be silent; they don’t talk to strangers, to say nothing of with their neighbors. Nowadays, they may be more open but still silent. Even though I live in America now, I can tell; I read and hear things like that. But there are exceptional people who are talkative, to the degree they can earn a nick name, motormouth, who do all the talking. As any other things, moderation is way to go, you know.
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Aristotle described a virtue as a “mean” or “intermediate” between two extremes: one of excess and one of deficiency. I think he was dead right 🙂
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