Il fenomeno migratorio

In un blog dedicato alla tematica del viaggio nelle sue diverse sfaccettature, non poteva mancare un approfondimento su una particolare tipologia di viaggio per certi versi anomalo, perché in questo caso viene a mancare la caratteristica del “piacere” di viaggiare: mi riferisco al viaggio per la ricerca di un lavoro, il viaggio, cioè, di chi non ha un lavoro e spera di trovarlo lontano da casa.
In siffatte circostanze, come si può facilmente capire, il migrante che si mette “in viaggio”, ne avrebbe fatto volentieri a meno, viaggia solo nella speranza di cogliere, in una terra lontana, quelle opportunità di lavoro che la sua terra non ha saputo offrirgli.

IMMIGRAZIONE: SBARCHI SENZA SOSTA A LAMPEDUSA, TRE IN ARRIVO

Spesso questo particolare tipo di “viaggiatore” si scontra anche con la diffidenza delle persone del luogo che, istintivamente, vedono in lui una potenziale fonte di pericolo.
Oggi in Italia, e non solo, si dibatte molto su questo delicato tema; vi sono politici che esasperano i toni, strumentalizzando a fini elettorali l’ignoranza di alcune persone e contribuiscono, in tal modo, ad accrescere la diffidenza, la paura e la rabbia nei confronti di altre persone che, in ultima analisi, si sono messe in viaggio solo nella speranza di un futuro migliore.
Senza contare che alcuni di questi migranti fuggono, non solo, come detto, per cercare nuove opportunità di lavoro, ma, talvolta, fuggono anche dalla guerra o da persecuzioni politiche: in questi casi le motivazioni si intrecciano e la faccenda si complica ulteriormente.
Da qualche parte la gente reagisce manifestando nei confronti dei migranti chiusura ed intolleranza, da altre parti, vedi l’isola di Lampedusa, dove, paradossalmente, il problema assume carattere di reale emergenza umanitaria, la gente dimostra maggiore apertura mentale e senso di responsabilità: il sentimento di solidarietà e la cultura dell’accoglienza prevalgono sugli interessi individualistici.
Non si può negare di essere dinanzi ad un problema spinoso, e non si può nascondere che una presenza sproporzionata di migranti sul territorio, senza un’opportuna pianificazione, possa portare ad inevitabili squilibri economici e sociali, col rischio di pericolosi innalzamenti dei livelli di guardia di microcriminalità.
Tuttavia, ciò che non comprendo, ciò che non condivido, è la chiusura pregiudiziale nei confronti dei migranti, perché, al di là di ogni considerazione di ordine politico, a mio giudizio il problema è anche e, soprattutto, di ordine morale.
In particolare noi italiani dovremmo riflettere con particolare attenzione e provare a rileggere le pagine della nostra stessa storia.
Durante un mio viaggio negli Stati Uniti, mi recai ad Ellis Island, un isolotto posto alla foce del fiume Hudson, nella baia di New York.

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Sull’isola vi è un antico arsenale militare che costituiva il principale punto d’ingresso per gli immigrati che all’inizio del secolo scorso sbarcavano in America.
Oggi l’arsenale è diventato un museo e consiglio di visitarlo a tutti coloro che vogliono prendere coscienza sino in fondo, su quale fosse la condizione di inferiorità psicologica nella quale si trovavano gli aspiranti cittadini statunitensi (tra questi, milioni di italiani, moltissimi dei quali, soprattutto nella prima ondata di flusso migratorio, provenienti dall’Italia del nord, in particolare dalla regione Veneto).
Subito dopo lo sbarco, i medici del Servizio Immigrazione controllavano rapidamente ciascun immigrato, contrassegnando sulla schiena con un gesso, quelli le cui condizioni di salute, in prima battuta, non venivano considerate sufficientemente idonee per l’accoglienza sul suolo americano.
I “marchiati”, secondo quanto riportato su un vademecum dell’epoca, di cui è custodita all’interno del museo una copia consultabile dai visitatori, venivano inviati in un’altra stanza per “controlli più approfonditi”; appartenevano a questa schiera, sempre secondo quanto testualmente riportato sul vademecum, “vecchi, deformi, ciechi, sdentati, sordomuti, persone affette da malattie contagiose, aberrazioni mentali e qualsiasi altra infermità”.
Per i ritenuti non idonei, c’era l’immediato reimbarco sulla stessa nave che li aveva portati negli Stati Uniti; chi superava l’esame, veniva, invece, accompagnato nella Sala dei Registri, dove, gli Ispettori preposti registravano nome, luogo di nascita, razza, stato civile, luogo di destinazione, eventuale disponibilità di denaro, professione e precedenti penali.
Infine, i più fortunati, ricevevano l’agognato permesso di sbarcare e venivano accompagnati al molo del traghetto per Manhattan.
Ricordo che osservando i registri dell’epoca, rimasi particolarmente colpito dal fatto che tutti gli immigrati, in relazione al Paese d’origine, venivano classificati in tre categorie fondamentali: “W”, “B” e “NW”, dove “W” stava per “white”, cioè “bianchi”, “B” stava per “black”, vale a dire “neri” e “NW” stava per “no-white”; in pratica tutti coloro che non erano bianchi, ma non erano neppure neri, venivano genericamente indicati come “no-white”, e la cosa per me sorprendente fu che, leggendo i luoghi di provenienza delle persone schedate come “no-white”, mi accorsi che molte di esse provenivano non solo dai Paesi asiatici e dai Paesi Arabi, ma anche dal Messico e dall’Italia meridionale.
Mi fece un certo effetto veder considerati molti nostri connazionali provenienti da Napoli, Messina o Reggio Calabria come appartenenti ad una razza ibrida, inseriti in un unico calderone insieme a cinesi, guatemaltechi, marocchini, indiani e giapponesi. E provai tale disagio non, semplicemente, in quanto italiano: penso avrei provato lo stesso stupore se fossi appartenuto, indifferentemente, ad una qualunque di quelle popolazioni, eterogenee fra loro, che, con sommaria e sbrigativa approssimazione erano state accomunate all’interno di una stessa indistinta categoria “razziale”, non per una specifica caratteristica etnica posseduta, bensì per una caratteristica etnica “non posseduta”.
Insomma, ho come l’impressione che spesso la storia si ripeta nelle sue dinamiche più sconcertanti.
Anche oggi, ad esempio, ho notato una propensione da parte di molti di noi, ad adoperare nei confronti dei migranti che arrivano da terre lontane, il termine extra-comunitario con una buona dose di grossolana approssimazione e con una punta di innegabile razzismo: approssimazione, nella misura in cui, a ben vedere, taluni di loro (rumeni, polacchi, bulgari) non sono affatto extra-comunitari; razzismo, perché spesso attribuiamo al suddetto termine una connotazione palesemente negativa, tant’è che, assai più facilmente ed a cuor leggero definiremmo “extra-comunitario” un povero esule afghano, piuttosto che un ricco turista statunitense, nonostante entrambi, tecnicamente, si trovino nella medesima condizione politica di “extracomunitari”.
Come certamente avrete capito, con questo articolo sul tema dei migranti non avevo nessuna intenzione di fornire risposte esaustive (in tutta onestà non penso di possedere la chiave di volta), né intendevo entrare nel vivo del dibattito politico (non essendo questa la sede appropriata): volevo semplicemente offrire uno spunto di riflessione su una questione che mi sta particolarmente a cuore, prendendo le distanze dagli slogan e dai qualunquistici proclami che il più delle volte, anziché abbassare i toni, contribuiscono ad innalzare il livello di tensione, ostacolando il naturale processo di integrazione fra i popoli.

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14 pensieri riguardo “Il fenomeno migratorio

  1. Un inglese residente in Italia si chiama ‘expatriota’ mentre uno del Mali in Italia si ‘clandestino’ ! Mentalita’ innominabile secondo me…..

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    1. Purtroppo i condizionamenti psicologici producono effetti (talvolta inconsciamente) persino su un piano linguistico…

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  2. Complimenti, davvero un sig. articolo…

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    1. Grazie Silvia,
      mi fa molto piacere che tu abbia apprezzato il mio articolo 🙂

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  3. Hai toccato una grande tematica.. non posso che darti ragione.

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    1. Ciao Simona,
      Ti ringrazio per la condivisione: conoscendo la tua profondità di pensiero, la cosa mi gratifica particolarmente.

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  4. Bellissimo post. Ellis Island dovrebbe essere un posto dove si va in gita obbligatoria con la scuola, per imparare e non dimenticare. Questa cosa dei B/W/N-W è davvero sconcertante.

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    1. Mi trovo perfettamente in linea con il tuo punto di vista: per costruire un futuro migliore credo sia indispensabile conoscere il nostro passato, cercando di non ripetere gli errori commessi dalle generazioni che ci hanno preceduto.
      Un caro saluto e grazie per essere passata dal mio blog

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  5. Un altro articolo stimolanti e meravigliosamente scritto Giovanni. Le gente troppo facilmente vedere il lato negativo dell’immigrazione ma non vedere l’arricchimento. La scuola in cui lavoravo avevo di più venti lingue parlate da tutto il mondo. Sebbene erano tutti giovani mi insegnavano cosi tanto della vita diversa, la cultura, il cibo , le lingue e quanto sono stato fortunata.

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    1. E’ sempre bello sapere che continui a leggere con entusiasmo i miei articoli e che condividi le mie idee. Effettivamente lo scambio culturale tra persone che provengono da realtà differenti dalla nostra, non può che arricchirci, rendendoci maggiormente aperti e flessibili. Inoltre, sono del tutto d’accordo quando dici che il confronto con gli altri ti ha anche resa maggiormente consapevole di vivere una situazione di privilegio rispetto a tanta gente che proviene da aree geografiche più sfortunate rispetto a quelle di nostra appartenenza. Mediante il confronto si percepiscono le differenze e la consapevolezza di tali differenze stimola la riflessione…
      Ciao e buona serata!

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  6. Words of wisdom 🌹

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  7. E poi si riempiono la bocca parlando di Ius soli e decreto-sicurezza!
    Che si leggessero articoli come questi per acculturarsi un poco certi politici da quattro soldi, prima di sparare str***zate!!!

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  8. Condivido ogni parola, anch’io ho visitato quell’isola e porto con me l’angoscia che ha suscitato. Oggi, per me è prioritario parlare di “persone” e le persone vanno accolte, certo in un quadro politico ultra nazionale nel quale si sappia affrontare il tema, ma senza dimenticare che l’alternativa, spesso, è lasciarle morire nel Mediterraneo.

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    1. Ciao Giuseppe,
      hai toccato il punto centrale di tutta la questione: siamo davanti a “persone”… non “cose”.
      Grazie anche a te per il tuo prezioso contributo e buona giornata!

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